Venerdì mi sono svegliata di malumore – sarà perché in pausa pranzo dovevo andare dal dentista, sarà perché ero di nuovo in ritardo con la stesura di questo articolo, sarà l’eclissi lunare in arrivo.
Uscendo dall’ambulatorio più felice di quanto lo fossi quando vi ero entrata (nessuna carie, yeah!), sono passata davanti a una delle mie librerie preferite – la Berliner Büchertisch.
Non posso descrivere la mia sorpresa nel trovarmi davanti una vetrina completamente dedicata alle fiabe, proprio nella settimana in cui ho deciso di scrivere un articolo sul tema.
Il fatto che in questi giorni si tenga il 33. Berliner Märchentage (Il trentatreesimo festival berlinese delle fiabe) non toglie nulla all’elemento serendipico di questa sincronicità, dal momento che non sapevo nulla sull’esistenza di un tale evento prima di leggere la nota a esso relativa nella suddetta vetrina.
Come se ciò non bastasse, il volume più grosso esposto era una meravigliosa edizione del 1941 delle Kinder- und Hausmärchen (fiabe del focolare) dei fratelli Grimm.
Giuro su questo volume – ora in bella mostra a mo’ di bibbia sul mio comodino – di aver scritto quanto segue prima di passare dinnanzi alla libreria…
…. Le fiabe classiche sono tutt’ora considerate delle Urformen, una sorta di matrice per la narrativa contemporanea.
Ma cosa ne è della loro originale funzione educativa?
Con tutto il maschilismo, l’antisemitismo l’eteronormatività, il razzismo, la violenza e un insegnamento basato sulla paura – spesso del diverso – sono senza dubbio superate.
Siamo arrivati al paradosso in cui le fiabe per bambini contengono contenuti non adatti bambini.
Questo non significa che siano da buttare. Ma vanno riscritte, affinché rispecchino i valori della società attuale.
Per i nostalgici e i conservatori a cui l’idea di lasciare andare andare le storie tramandate di generazione in generazione, il patrimonio culturale e le tradizioni fa tremare la terra sotto i piedi: sappiate che le fiabe con cui siete cresciuti sono già versioni riscritte – e perdonatemi per avervi inflitto il secondo trauma dopo la scoperta che Babbo Natale non esiste.
Prendiamo ad esempio i famosi fratelli Grimm. Jacob e Wilhelm pubblicarono la prima raccolta di fiabe nel 1812.
Queste fiabe erano pensate per un pubblico adulto, e contenevano dettagli cruenti a profusione, belle addormentate stuprate nel sonno, madri affamate che si cibano dei propri figli, sorellastre disposte ad affettarsi pezzi di piedi pur di riuscire a calzare la scarpetta; il lieto fine non era quasi mai previsto, il cannibalismo veniva riguardato con meno avversione di quella che oggigiorno il movimento vegano rivolge agli onnivori.
Consapevoli dell’influenza identificativa e didattica delle storie nei bambini, i fratelli Grimm pubblicarono ben sei edizioni successive pensate per l’infanzia.
La settima edizione, del 1857, è quella che conosciamo ora, anche se la generazione Disney ha usufruito di una versioni ancor più edulcorate.
Jack Zipes, professore di letteratura tedesca comparata in Minnesota e curatore della prima edizione inglese delle favole dei fratelli Grimm in versione originale (The Original Folk and Fairy Tales of the Brothers Grimm: The Complete First Edition, Princeton University Press, 2015) sostiene che l’opera di censura operata da Wilhelm Grimm nel redarre una versione per i bambini della borghesia comprende l’eliminazione di almeno 40 fiabe. Le restanti vennero riscritte affinché riflettessero i valori cristiani della classe media, ma anche quelli politici – ed è così che furono eliminate le fate, elemento fantastico di tradizione francese, in quanto questo era il periodo delle guerre e dell’occupazione francese dei territori tedeschi.*
Zipes si professa contrario a una riscrittura delle storie, sostenendo che un lettore ha la capacità di decidere per se stesso cosa leggere, senza necessità di censori puritani.
Forse i suoi pargoli hanno ereditato la capacità critica insieme al codice genetico, ma dubito che i figli dei comuni mortali siano in grado di elaborare la morte di Cappuccetto rosso alla luce della critica letteraria comparatistica.
Ringraziamo allora l’emerito professore per averci messo a disposizione questo prezioso documento storico e lasciamo la didattica a un altro dipartimento.
Gli esperimenti in materia di riscrittura delle fiabe sono infiniti.
Un esempio recente è il libro Fiabe d’altro genere (Rizzoli, 2021).
Gli autori di questa raccolta – la coppia creativa Jonathan Plackett & Karrie Fransman – non hanno immaginato un finale diverso o inventato nuovi personaggi: semplicemente hanno scambiato il genere. Gli uomini sono diventati donne e viceversa.
Il libro è interessante in quanto fa riflettere su quanto il sessismo sia radicato anche nelle menti più aperte – come osservano gli autori dell’omonimo podcast commissionato da Rizzoli (disponibile su Spotify): “ci risulta più plausibile una zucca che si trasforma in carrozza di un maschio che sta a casa a cucire”.
Tuttavia credo che il testo sia poco plausibile per un’altra ragione.
Il fatto che agli occhi non ancora disincantati dell’infanzia i confini tra reale e fantastico siano fluidi non è una buona scusa per propinare un’opera di revisionismo storico, che si risolve in una discrepanza tra contesto e valori.
Una principessa metropolitana che salva un principe rinchiuso all’ultimo piano di un grattacelo nel 2022 sarebbe credibile; una damina in gonnellone e corsetto che sfida un drago non lo è.
E poi, è davvero giusto salvare l’immagine femminile da una posizione subordinata subordinando quella maschile?
Per non parlare della bellezza come rappresentazione delle bontà, e dell’importanza di avere al seguito uno stuolo di servili servitori.
Come possiamo giustificare una società classista e femminista allo stesso tempo?
E se cambiare il genere ma lasciare sempre invariato l’orientamento sessuale non si può proprio definire una scelta omofoba, di certo non è nemmeno una scelta inclusiva.
L’uguaglianza e la tolleranza devono valere per tutti, altrimenti si risolvono in nuova intolleranza.
Insomma, ormai l’avete capito, questo esperimento letterario non mi ha entusiasmata.
Cade dal lato opposto il professore di sceneggiatura David Clawson, che in My fairy Godmother is a Drag Queen (Sky Pony Press, 2017) veste Cenerentola dei colori dell’arcobaleno.
Questa riscrittura, pensata per un pubblico di giovani adulti, strappa una risata a ogni paragrafo, e anche se sappiamo già come la storia andrà a finire, la compulsione di leggere ancora un’altra pagina è garantita.
Peccato che il professor Clawson mal celi la propria misoginia.
Già nel secondo capitolo troviamo un dialogo in cui la “Fairy Drag Queen” dichiara di non voler essere servita con del pesce, dando così ad intendere di non essere attratta dalle donne.
Fairy ma decisamente non fair.
Anche se a una prima occhiata questo potrebbe sembrare un semplice scherzo, a fronte di una breve ricerca risulta piuttosto una dichiarazione.
Considerando che l’autore menziona le Drag Races di RuPaul e dimostra familiarità con il vocabolario Drag, trovo difficile credere che non fosse consapevole del dibattito riguardo la correttezza dell’aggettivo “fishy” in un contesto Drag, dove il termine viene usato per descrivere una Drag Queen con un aspetto particolarmente femminile, comparando l’odore di una vagina a quello di un pesce marcio.
“Fishy” ha raggiunto il grande pubblico con la prima edizione della Drag Race di RuPaul, ed è a questo punto che diverse voci si sono alzate, trovando l’accezione offensiva. Dalla seconda stagione, la parola “fishy” non è più stata pronunciata.
Se possiamo decidere di chiudere un occhio su una sfilata Drag, di certo non possiamo farlo su romanzo per giovani adulti che si ripropone in chiave inclusiva.
Il fatto che in tutto il romanzo non compaia una sola donna cis-gender nel ruolo di un personaggio positivo non ci aiuta a sostenere l’innocenza di Clawson, che prima di scrivere il prossimo romanzo educativo farebbe meglio a risolvere i propri problemi con le donne.
Non aver considerato questi aspetti non riflette un’immagine positiva neanche sugli editori.
Insomma, la morale della favola è che riscrivere la storia è un compito tutt’altro che facile.
Riflettere sulle fiabe non risolverà con un colpo di bacchetta magica le contraddizioni della società, ma forse può aiutare a fare un po’ di luce sulle proprie.
* https://www.theguardian.com/books/2014/nov/12/grimm-brothers-fairytales-horror-new-translation