“Se volete conoscermi veramente, non leggete le mie biografie, legge i miei romanzi.”
Non saprei dirvi chi sia stato il primo scrittore a mettere nero su bianco questa verità della produzione letteraria, perché è stata così spesso citata e parafrasata che ormai se ne è persa la fonte.
Una delle autrici ad averla pronunciata negli ultimi tempi è stata Elizabeth Gilbert, in occasione della pubblicazione del suo romanzo City of Girls.
Non c’è dubbio che la protagonista Vivian Morris, seppure così diversa dalla Gilbert nelle apparenze, da lei abbia preso la passione.
La sua dedizione alla sartoria, è la stessa di Gilbert per la scrittura.
Insomma, la situazione e il contesto storico sono inventati, ma l’emozione che muove l’animo di Vivian è vera, è quella dell’autrice stessa.
Sembra che gli scrittori riescano a mostrare una parte più intima di sé nei romanzi che nelle autobiografie.
Per quanto creare situazioni fittizie sia più facile, immaginare emozioni mai provate non è impossibile. Soprattutto per un lettore allenato.
È proprio questo secondo la filosofa Martha Nussbaum il ruolo sociale della letteratura – sviluppare la capacità di immedesimarsi nella sfera emotiva del prossimo e sviluppare così empatia e compassione, qualità fondamentali alla convivenza sociale.
Dal momento che la maggior parte dei grandi scrittori sono anche grandi lettori, l’incapacità di narrare emozioni altrui non può essere la ragione che spinge a mettere la proprie dentro i romanzi.
La scrittura, come ogni processo creativo, è un viaggio di scoperta all’interno, durante il quale il sé affiora dall’inconscio e si rivela. Capita che lo scrittore si accorga solo a capitolo ultimato che il testo non solo ha una componente autobiografica, ma che addirittura gli sta mostrando un aspetto di sé o di una situazione che fino ad allora non riusciva a vedere.
Non a caso la scrittura è una forma di terapia.
Il romanzo non autobiografico permette di operare un camouflage non concesso dall’autobiografia, priva del pretesto della terza persona e di elementi fittizi, e facilita una narrazione personale più autentica.
Il mémoire acquisisce così la funzione che per i comuni mortali può avere pagina Facebook – un luogo dove promuovere l’idea di noi che ci aggrada e che vogliamo gli altri abbiano di noi.
Scrive John Dufresne: “I’ll believe everything I read except autobiography. A fiction writer has no reason to lie. A memoirist has an illusion to protect”
(The Lie that Tells a Truth – A Guide to Writing Fiction, John Dufresne, Norton, NY, 2003)
È nel romanzo in cui possiamo assistere al lavoro sull’ombra junghiano da parte dello scrittore.
L’autobiografia di Stephen King On Writing – A Memoir of the Craft (Hodder & Stoughton, 2000) è spesso criticata per inconsistenza, di essere una sorta di vagheggio dell’autore povero di consigli pratici.
Soprattutto viene messa in dubbio la veridicità di King riguardo al suo essere un pantser – termine anglofono designato per gli scrittori che non pianificano il proprio lavoro, planando come uccelli sulla pagina bianca from the seat of their pants, senza sapere con certezza dove la storia li porterà.
King è dell’idea che la spontaneità della vera creazione e la pianificazione non siano compatibili, e paragona tracciare un romanzo all’estrazione di un fossile con un martello pneumatico.
La prima parte del testo è un vero e proprio resoconto autobiografico dell’infanzia di King, di cui lui riporta con minuzia dettagli splatter e episodi rivoltanti.
Che sia stato questo passato ad aver fatto di King un grande scrittore o che il grande scrittore abbia operato una revisione arguta della propria infanzia priva di charme, trasformandola con abili colpi di penna in un’opera d’arte, poco ci importa – la fusione tra arte e vita è un processo binario.
Partendo da materiale assai povero, King sutura i pezzi del suo passato con un filo rosso sangue, e la storia che ci presenta è la crème de la crème di questo volume.
La seconda parte del libro è dedicata alla scrittura vera e propria, con ricorrenti riferimenti alle proprie opere.
Ho trovato questa sezione motivante. King ci ricorda che il talento da solo non basta, che il suo successo è il risultato di almeno sei ore di scrittura al giorno, anche quando era occupato in un lavoro a tempo pieno, di ore passate allo scrittoio senza che la musa dell’illuminazione si facesse vedere:
“Sometimes you have to go on when you don’t feel like it, and sometimes you’re doing good work when it feels like all you’re managing is to shovel shit from a sitting position.”
Il messaggio è chiaro: se credete di poter raggiungere il successo letterario scrivendo un’oretta la sera prima di andare a letto, state pensando di essere meglio di Stephen King.
King ricorda inoltre l’importanza di avere qualcuno che creda nel nostro lavoro, di leggere molto, si promulga in consigli pratici su dove trovare il tempo per farlo, raccomanda di ascoltare audiolibri in palestra, di comprarsi una scrivania e di chiudere la porta dello studio quando si scrive… niente di diverso da quanto ogni rispettabile aspirante scrittore dica a se stesso, ma la voce di Stephen King è decisamente più autorevole, e questo è un altro buon motivo per cui vale la pena di leggere On Writing.
Se invece cercate delle rivelazioni sul processo artistico del re dell’horror, lasciate stare On Writing e prendete in mano Misery. (Misery, Stephen King, Scribner, 1987, NY)
Il protagonista di Misery è Paul Sheldon, uno scrittore famoso che con enorme sollievo porta a conclusione Misery, una serie che gli ha garantito ampio successo letterario, ma gli ha impedito di procedere con altri progetti.
Finisce per fare un incidente d’auto e viene soccorso da Annie Wilkes, un’ex-infermiera psicopatica, nonché fan sfegatata di Misery. Annie lo terrà prigioniero e attraverso torture, menomazioni e una dipendenza indotta a un potente antidolorifico, lo obbligherà a scrivere per lei un altro libro della serie Misery.
King riesce a mantenere alta la tensione per tutte le 450 pagine di un thriller psicologico ambientato quasi interamente nella stanza in cui Paul Sheldon è rinchiuso.
Al tempo della stesura del romanzo, King scriveva sotto l’effetto di alcol e cocaina, e non trascorreva più di quattro ore al giorno sobrio.
Sul fatto che Paul Sheldon abbia molto del suo creatore non c’è dubbio; più interessante è il suo rapporto con Annie Wilkie, spesso interpretata come un simbolo per la cocaina, ma forse più plausibilmente una sorta di Mr Hyde dello stesso Steven King, o una rappresentazione di quello che la scrittura stessa era diventata per lui in un periodo in cui spesso accarezzava l’idea di togliersi la vita: la sua salvezza e la sua prigione.
In Misery ci sono la paura di perdere il talento se si fosse disintossicato, la gioia di essere scrittore che gli fa apprezzare anche la miseria più nera, e la sua preoccupazione più grande – che il suo libro possa non piacere – nel momento in cui è sul punto di perdere la vita.
Per quanto nella sua biografia Stephen King si sforzi di mostrarci che scrivere è un lavoro serio, è in Misery che riesce davvero a sfatare il mito della scrittura come un talento innato la cui messa in pratica risulti priva di sforzo.
Se la saggistica può permettersi di affermare con chiarezza, è ancora una volta alla letteratura che va attribuito il merito di riuscire a veicolare il messaggio a livello emotivo.