Ogni mattina, appena sveglia, dedico mezzora a una pratica meditativa.
Spesso mi stendo sul mio materassino Shakti e ascolto una meditazione guidata; altre volte mi siedo a gambe incrociate sul divano, chiudo gli occhi, e cerco di prendere coscienza del grande mistero dell’Universo, prima di iniziare la giornata e dimenticarmene, come la maggior parte della gente comune che si dedica ad attività comuni, persa nelle piccolezze della vita quotidiana.
Se avete già letto gli altri miei articoli, potresti esservi accorti che la maggior parte di quello che scrivo costituisce quasi sempre la cronaca un flusso di pensieri, scaturito da quelle che Carl Gustav Jung chiama sincronicità – fenomeni collegati tra loro simbolicamente, non generati dai nessi causali di spazio e tempo.
Per chi non crede alla concatenazione dei fenomeni acausali: coincidenze fortuite.
La serie di eventi serendipici di cui voglio parlarvi in questo episodio ha inizio il 29 gennaio 2020.
Quel giorno mi trovavo in un treno partito dalla stazione centrale di Berlino e diretto di Triebel, una località nel sud della Germania. Mi recavo al centro Dhamma Dvāra, un istituto appartenente alla scuola di meditazione Vipassana fondata da S.N. Goenka nel 1976, che allo stato attuale offre corsi di meditazione in 341 centri situati in 94 paesi. La fondazione si proclama non-profit.
Già da qualche anno avevo iniziato a chiudere gli occhi per quindici minuti ogni mattina, sforzandomi di non pensare a niente, avevo letto qualche libro sulla pratica spirituale e sulla mindfulness, avevo partecipato a brevi ritiri e a gruppi di meditazione. Con scarsi risultati.
Un paio di persone mi avevano parlato della loro permanenza nei centri Goenka come di una di un’esperienza illuminante, che aveva segnato una svolta nel loro percorso spirituale.
Esitavo a scrivermi.
Non sono certo l’unica a non aver sentito fin da subito uno slancio di entusiasmo per il programma di Goenka.
I corsi di meditazione offerti da questa organizzazione durano dieci giorni, durante ognuno dei quali si medita dieci ore; è vietato parlare o comunicare in altro modo, scrivere, leggere. Telefoni cellulari, libri, carta e penne vanno consegnati all’arrivo.
OK – ora avete capito la mancanza di euforia.
Eppure le liste d’attesa per partecipare possono essere molto lunghe, a seconda del centro prescelto.
A ottobre 2019 ho preso la decisione – sì, armiamoci per raggiungere l’illuminazione! – e ho inviato la richiesta.
Per registrarsi è necessario compilare un formulario le cui domande sembrano copiate e incollate dal modulo di richiesta per il visto di entrata negli Stati Uniti.
Dopo aver dichiarato di non avere intenzione di ledere nessuno, di non soffrire di psicosi e di non voler introdurre sostanze stupefacenti nel centro, sono entrata in lista d’attesa.
Due mesi dopo mi è stato garantito un posto per un corso a fine gennaio nel centro Dhamma Dvāra di Triebel.
Fantastico! Quale modo migliore per investire i primi dieci giorni di ferie del nuovo anno?
Allora non potevo immaginare che una pandemia avrebbe investito l’Europa, e che avrei passato tre mesi nella stessa totale insolazione, senza bisogno di prendere giorni liberi.
Se più che sincronicità vi sembra sfiga, va bene lo stesso.
Per chi ama scrivere la sfiga è sempre relativa, in quanto tende a fornire ingredienti di prima qualità da gettare nel gran pentolone in cui si cucinano le storie.
(Dio, se sei abbonato a questa newsletter, quanto ho appena scritto non è da interpretarsi come una preghiera, ho anche altre fonti di ispirazione a cui attingere.)
E così il 29 gennaio 2020 ero su questo treno per Triebel, nello zaino un paio di libri e una copia di Internazionale, insieme alla buona illusione di riuscire leggere tutto prima di arrivare, per compensare agli imminenti giorni di astinenza.
Se sono disposta ad ammettere che interpretare il collegamento tra la mia ammissione al corso e la pandemia come una sincronicità era un po’azzardarto, quanto segue potrebbe sembrarvi più plausibile: nella copia di Internazionale che avevo con me quel giorno era stato pubblicato un articolo sulla mindfulness, che ho iniziato a leggere durante quel viaggio in treno.
Il titolo dell’articolo è La meditazione che fa bene al capitale (17 gennaio 2020, Ronald Pursen).
Sono andata a ricercare questa pubblicazione sul sito di Internazionale la settimana scorsa, quando ho pensato di scrivere una newsletter sul pensiero positivo e, guardate un po’, è stato ripubblicato in data 18 novembre 2020.
Siete liberi di pensarla come volete.
Mi chiedo se avrei affrontato quel corso nello stesso modo, se su quel treno non avessi letto quell’articolo.
Lo consiglio caldamente a chiunque si interessi alle pratiche meditative.
Purser scrive di come la mindfulness – un’industria che dice dovrebbe valere intorno ai quattro miliardi di dollari – sia diventata un fenomeno di massa, una strumentalizzazione da parte del sistema capitalista dell’originale dottrina orientale.
Con l’aiuto di Jon Kabat-Zin, l’inventore del programma Mindfulness-based stress reduction (Mbsr), la midfulness è uscita dai monasteri buddisti e si è insinuata nelle più svariate istituzioni, dalle grandi multinazionali agli eserciti, e ha ridefinito lo stress, l’ansia e l’infelicità come problemi privati, slegati dal sistema e dalle disuguaglianze sociali.
Scrive Pursen: “I problemi personali non sono mai ricondotti a condizioni politiche o socioeconomiche, ma sono sempre di natura psicologica e diagnosticati come patologie. La società ha bisogno di terapia, non di un cambiamento radicale. Ecco perché i programmi di mindfulness sono diventati così attraenti per chi governa.”
[…]
La mindfulness è solo una tecnica di concentrazione. Anche se deriva dal buddismo, non ne ha ereditato né gli insegnamenti etici né l’obiettivo di staccarsi da un falso senso di sé attraverso la compassione per tutti gli esseri viventi. Quello che rimane è uno strumento di autodisciplina mascherato da auto-aiuto. Invece di liberare le persone, la mindfulness le aiuta ad adattarsi a quelle stesse condizioni che sono alla radice dei loro problemi. Un movimento veramente rivoluzionario cercherebbe di rovesciare questo sistema disfunzionale; la mindfulness, invece, non fa che rafforzarne la logica distruttiva.
[…]
Il concetto della mindfullness è l’adozione di un atteggiamento equanime e acritico, che una volta inglobata dal sistema capitalista è diventata uno strumento per «ottimizzare l’individuo attraverso la terapia per renderlo “mentalmente pronto”, vigile e resiliente, in modo che possa continuare a funzionare all’interno del sistema. Questa capitolazione è lontana da una rivoluzione: somiglia più a una resa silenziosa.»
Secondo Pursen si tratterebbe quindi di un meccanismo di invalidazione di uno strumento di liberazione attraverso non lo soppressione, ma la sua integrazione nel sistema stesso.
Contro questa dinamica ci aveva messo in guardia Pier Paolo Pasolini agli albori del sistema neocapitalistico, nella sua tarda produzione e nelle ultime interviste, poco prima di finire ammazzato all’idroscalo di Roma: una distruzione dei valori dall’interno, subdola, operata da un “nuovo potere” – il sistema consumistico – in grado di sottomettere l’intera esistenza alla logica di mercato, e che alla più lampante repressione fascista contrapponeva una “falsa libertà”, finendo per esercitare lo stesso potere.
Il soggiorno al centro Dhamma Dvāra ha inizio con un discorso di benvenuto. Ci viene detto che durante i dieci giorni di ritiro quello che avverrà in noi è un cambiamento radicale a livello celebrale, e che rompere il voto di silenzio o lasciare il corso prima della fine equivarrebbe a interrompere questa specie di “operazione chirurgica” e potrebbe causare danni psichici irreversibili. Avremo modo di condividere la nostra esperienza con gli altri partecipanti l’undicesimo giorno, durante la cerimonia di chiusura del ritiro.
Non ricordo cosa ho pensato.
Tendo a dimenticare i pensieri che non mi annoto, e avevo già consegnato carta e penna, ma credo che questa informazione abbia coinciso con l’avvio alle mie pratiche di divorzio dall’istituzione del signor Goenka.
Al centro Dhamma Dvāra, le giornate cominciano alle 4 con il suono di un gong, e proseguono fino alle 21. Vengono serviti due pasti: alle sei del mattino e a mezzogiorno.
I dormitori degli uomini sono separati da quelli dalle donne, che accedono da due ale opposte alla stessa grande sala di meditazione, e siedono separati, a destra e a sinistra. Di fronte a noi siede il maestro. Non parla quasi mai, la voce che introduce le sessioni di meditazione è quella registrata del fu S.N. Goenka, morto nel 2013:
Put all your attention on the area below your nostrils and above your lips…
Un ritornello che non ho ancora dimenticato.
Le sessioni di meditazione – quattro al giorno – durano da due a tre ore. Ore di immobilità. Le ginocchia incrociate dopo 15 minuti cominciano a far un male cane, ma è vietato sgranchirsi.
…Work diligently. Diligently. Work patiently and persistently. Patiently and persistently. And you’re bound to be successful. Bound to be successful…ripete la voce cantilenante del defunto.
Ogni tanto apro gli occhi per sbirciare se anche gli altri hanno lacrime di dolore. Nelle file davanti, quelli dei partecipanti recidivi, scorgo sorrisi di beatitudine.
Ogni sera alle 19 un discorso di S.N. Goenka registrato in video viene diffuso. È un peccato che non abbia potuto prendere appunti. Ciononostante la dialettica di Goenka è costruita sui principi del linguaggio ipnotico e trasmette concetti destinati a non essere dimenticati.
Ci viene spiegato che lo scopo del dolore fisico è raggiungere uno stato di “perfetta equanimità”, che rende possibile il distaccamento dagli attaccamenti e dalle sofferenze terrene e garantisce “l’assoluzione” (non ho capito bene da cosa, non sono stati nominati peccati originari per ora, ma a ben pensarci qualcosa di sbagliato nelle nostre vite precedenti dobbiamo pure averlo fatto, se ora ci troviamo a gambe incrociate in questo centro).
Un training di alienazione, insomma.
Un paio di anni fa ho acquistato A Course in Miracles, un volume spesso citato come una specie di bibbia tra i sostenitori del pensiero positivo. Il libro è stato scritto nel 1976 da una tale dottoressa Schucman, psicologa americana. A sentir lei le è stato dettato da Gesù Cristo in persona – al momento dell’acquisto ero all’oscuro di questo dettaglio, lo giuro – e poi pubblicato da un’entità più terrena, denominata The Foundation for Inner Peace.
A Course in Miracles si prefigge di insegnare a prendere piena consapevolezza dell’amore onnipresente, nella piena negazione dell’esistenza di qualsiasi forma di sofferenza. Mi sono sforzata di leggerne qualche pagina prima di desistere.
In un post sulla sua pagina Facebook, la dottoressa Rankin, riferendosi a A course in Miracles, scrive che “If nothing in the world disturbs you right now […] then you're so privileged you've managed to escape reality altogether” e individua nel diniego delle problematiche socio-politiche collettive che portano l’individuo all’infelicità un’opera manipolazione psicologica maligna (gaslighting) che sposta qualsiasi responsabilità sul singolo, colpevolizzandolo di aver scelto la paura sopra l’amore.
Al centro Dhamma Dvāra condivido la stanza con altre tre giovani donne.
Ogni notte, una di loro piange, per ore.
Non è il pianto silenzioso di chi non vuole essere udito.
Abbiamo fatto voto di silenzio, anche gli scambi di sguardi sono vietati. Dobbiamo ignorarci, il viaggio spirituale è individuale.
Nessuna di noi si alza per chiederle come sta, o per darle una parola di conforto.
Nulla è più spaventoso del vedere riaffiorare la propria natura umana, creduta ormai sepolta da secoli di civilizzazione.
Il quinto giorno, il suo letto è vuoto.
Questa alienazione non nuoce solo alla salute pubblica.
Purser paragona la pratica meditativa privata depurata della componente spirituale al “prendere un’aspirina per il mal di testa: una volta che il dolore passa, è tutto come prima”.
Ma si sa: a prendere troppa aspirina si finisce con un’ulcera.
Nel libro When the Body Says No (Penguin Random House UK, 2019; prima pubblicazione: 2003), il dottor Gabor Maté sostiene che le malattie abbiano raramente una causa univoca, e siano quasi sempre generate da una concomitanza di fattori di tipo fisico, ambientale, sociale e personale.
Spesso a una malattia invalidante corrisponde un particolare atteggiamento a cui il corpo si rifiuta di aderire. Tra questi atteggiamenti Maté annovera la difficoltà a mantenere i confini, l’incapacità di dire no, la tendenza ad annullare la propria volontà a favore di quella altrui, nonché quella di escludere le parti della realtà che vengono considerate negative, che Maté definisce “ottimismo terminale”.
Contro questo approccio, che poggia sulla mancanza di fiducia sulla propria capacità di affrontare la realtà, Maté prescrive il pensiero oggettivo.
Se ricordo bene, era il settimo giorno.
Sono le 4:30 del mattino e solo il chiarore di una fetta di luna e della neve sul prato illuminano la nostra via verso la sala di meditazione, situata a cinque minuti di strada dai dormitori. Il suolo è ghiacciato.
Alcune donne camminano davanti a me, a poca distanza tra loro. Una di loro scivola. Uno scivolone coi fiocchi, un vero e proprio salto. La donna resta per terra.
Vedo le altre fermarsi, mute e immobili.
Hanno fatto voto di silenzio. C’è una regola che impone di dimenticare la presenza degli altri.
Allungo il passo e mi dirigo verso l’infortunata. L’ho quasi raggiunta, quando lei si rialza, rivolgendomi con la mano e un segno del capo un gesto che significa “sto bene, grazie”.
Riprendiamo a camminare.
Mi chiedo dov’è esattamente che l’equanimità smette di essere imparzialità, per trasformarsi in differenza. E prendo una decisione.
Il pomeriggio del decimo giorno mi reco da una delle assistenti del corso – le uniche alle quali in caso di bisogno è concesso parlare – e le comunico la mia volontà di interrompere il programma.
Ma come, mi chiede, sei stata fino alla fine, domani a mezzogiorno a rompiamo il silenzio, ormai è fatta. Le spiego che la mia è una scelta di non adesione, che sono restata fino alla fine per poter essere sicura della mia opinione sull’esperienza, ma che non voglio partecipare alla cerimonia di chiusura.
L’assistente cerca di farmi desistere con decisione.
La minaccio di rivolgermi alla polizia se non mi ridà immediatamente il mio telefono.
A quel punto abbassa i toni e insiste perché vada almeno a vedere con il Maestro la mattina prima della cerimonia. Accetto.
Ricordo di aver incontrato il Maestro in una stanza in penombra e di aver espresso il mio dissenso verso la ricerca di uno stato di alienazione a discapito di empatia e senso comunitario. E del fatto che non mi pare ci sia niente di mindful nell’esclusione della realtà esterna al proprio corpo e nella soppressione del pensiero critico.
Per tutta risposta, il Maestro mi chiede se non ho avvertito le mie sensazioni corporali a livello cellulare.
Non ricordo abbia detto altro. O magari l’ha detto, ma il danno celebrale irreversibile per aver interrotto il corso prematuramente me l’ha fatto dimenticare.
Mah, chissà.
Il suo silenzio è in linea con l’atteggiamento “equanime” tanto predicato da questa organizzazione: “Liberation can be gained only by practice, never by mere discussion” è una delle affermazioni di Goenka.
Dopo il colloquio col Maestro, ritorno dall’assistente e chiedo che mi siano riconsegnati i miei averi.
C’è un problema, mi dice. La cerimonia ha avuto inizio e l’armadietto dove si trovano è situato proprio in quella stanza. Non è bene che gli altri partecipanti assistano alla mia dipartita – intuisco che il rischio è di danneggiare anche il loro cervello, oltre al mio – insiste perché me ne vada di nascosto a cerimonia ultimata.
Menziono di nuovo la polizia e mi vengono date le chiavi dell’armadietto, che effettivamente si trova proprio nel bel mezzo della Cerimonia delle Carte di Credito. Il voto di silenzio è stato sollevato, assistenti e adepti si ringraziano vicendevolmente, mentre gli ultimi inseriscono la carta di credito nei tanti terminali POS messi a disposizione per le offerte libere.
In uno dei vari treni che mi riportano alla realtà e a Berlino finisco in un vagone con due tifosi ubriachi di ritorno da una partita di calcio. Mi rivolgono la parola di quando in quando, ma hanno un accento stretto e capisco un terzo di quello che dicono.
Solo un paio d’ore dopo, quando prima di scendere dal treno con epiteti antisemiti mi insultano per essere un’immigrata, capisco che si tratta di due naziskin.Non me ne ero accorta.
Eppure, ora che li guardo bene, sembrano una caricatura di se stessi. Beata alienazione.
Vi chiederete allora perché, dopo questa esperienza, ogni mattina dedichi mezzora a una pratica meditativa.
Lo faccio perché credo che la meditazione e le pratiche di mindfulness siano un ottimo strumento per raccogliere le forze mentali necessarie a operare un cambiamento, o a mantenersi sulla via prepostasi.
Grazie a esperienze come quelle offerte dal Pa Pae Mediation Retreat di Chiang Mai ho imparato a connettermi alla natura a un livello profondo, e sarò eternamente grata a Andrew Johnson per avermi supportata nel liberarmi da una dipendenza decennale dal fumo con il suo programma di ipnosi e meditazione guidata Quit Smoking
Le altre meditazioni guidate della sua app Relax Change Create https://www.andrewjohnson.co.uk/ mi motivano a svegliarmi alle 4 del mattino (al suono della sveglia, non del gong) per scrivere, tra le altre cose, articoli come questo (bel risultato, direte voi!).
I guai iniziano quando la mindfulness smette di essere strumento, e assume un significato salvifico per se, trasformandosi in un feticcio.
Il problema insomma, è credere che la soluzione risieda nel chiudere gli occhi.