Gli spazi urbani decadenti mi hanno sempre affascinata molto di più delle città futuristiche o della natura selvaggia.
Passeggiare in posti quasi dimenticati, tra intonaci scrostati, cantieri abbandonati e quartieri non più di tendenza mi fa stare bene.
Mi emoziono quando scorgo un balcone fiorito in questi edifici, o quando vedo delle lenzuola fresche ondeggiare sui fili tesi di un unico appartamento abitato, in mezzo a tante saracinesche serrate.
Ecco, forse è la perseveranza delle persone che ancora li abitano a rendere questi luoghi speciali.
Ed è questa perseveranza che marca il labile confine tra decadenza e degrado.
Se condividete questa mia bizzarra passione per la decadenza, di certo avrete già sentito parlare dell’Edificio Copan, il più grande condominio di tutta San Paolo.
L’edificio a forma di S è un monumento all’alto modernismo nei tropici e il ricordo di un’epoca di ottimistico sviluppo nazionale*.
La costruzione dell’enorme struttura residenziale iniziò nel 1952 e si disse terminata quattordici anni più tardi, malgrado il Copan continui a essere un cantiere aperto, sia dal punto di vista edilizio che sociale.
L’utopia dell’architetto progettista Oscar Niemeyer di realizzare un complesso abitativo comune agli abitanti di San Paolo di diversi ceti sociali si è realizzata solo in parte. Dopo alcuni decenni di decadenza e svalutazione, i 1160 appartamenti stanno ora riacquistando valore.
Ho scattato la foto del Copan che vedete in questo articolo dall’adiacente Edificio Italia, durante il mio ultimo viaggio prima dello scoppio della pandemia, a novembre 2019 – già, avevo trovato bel tempo!
La visita a questo colosso urbano mi ha entusiasmata.
“Che posto stupendo per ambientare un racconto!” Non ho potuto evitare di pensare.
Per dirla tutta, lo avevo già a pensato prima di visitarlo dal vivo, ed era anche per quello che mi trovavo lì.
Ma sapevo che non potevo aver scoperto l’uovo di Colombo, e mi sono messa a ricercare.
È così che ho trovato la raccolta di racconti Stories from the Copan Building (1994), della scrittrice brasiliana Regina Rehda.
Negli otto racconti ambientati nell’edificio Copan, Rehda riporta l’imprevedibile intersecarsi della vite degli inquilini che lo abitano, ricreando una sorta di microcosmo della vita urbana brasiliana.
In queste storie ho trovato una rivisitazione in chiave contemporanea del realismo magico di uno dei miei scrittori preferiti, Jorge Amado – anch’esso brasiliano.
Una sorta di “post-realismo magico”, dove gli spiriti degli Orixa sono sostituiti dal fantasma di un sottopagato addetto alla manutenzione che in vita aveva servito i residenti con incessante dedizione.
Dico “post” perché Regina Rehda mantiene l’idiosincrasia culturale di Amado, terreno fertile per spiccare il volo da una percezione della realtà prettamente materialista, ma poi se ne distacca, ritornando con i piedi per terra, per così dire.
A rendere davvero magico il realismo di Regina Rehda non sono gli spiriti o i fenomeni paranormali, ma la sfera privata degli inquilini, che trasuda dalle mura degli appartamenti e emerge attraverso il reticolato dell’Edificio Copan.
Entrando nell’intimità della persone, presentandoci le loro stranezze, Rehda ci mostra che l’ordinarietà non è un altro che un’illusione.
Le Stories from the Copan Building sono contenute, insieme al romanzo breve First Word Third Class nell’omonimo volume (First Word Third Class and Other Tales of the Global Mix - University of Texas Press - 2005)
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Probabilmente non sarei mai incappata in questa esilarante opera letteraria se non mi fossi messa alla ricerca di storie ambientate nell’Edificio Copan, e sono estremamente grata per questo risvolto serendipico.
Rita Settemiglia, la protagonista di First World Third Class, è una regista brasiliana con una modesta ma avviata carriera, finché un cambio di amministrazione politica la porta a perdere il lavoro e a finire, senza prospettive, all’ufficio disoccupazione.
É così che Rita decide di partire per l’Europa.
Rehda sposta Rita Settemiglia con destrezza tra due continenti e tre nazioni, e attraverso questo viaggio illustra l’interazione tra dinamiche sociali che l’avvento della globalizzazione ha permesso. Si muove da una situazione all’altra con pungente ironia, addolcendoci così la fermezza del suo attivismo politico che trasuda da ogni pagina.
Il punto di vista, gestito con maestria e riuscita sperimentazione, subisce l’influenza della precedente attività di regista della scrittrice. Rehda riesce a saltare con disinvoltura dalla narrazione in terza persona ai pensieri più intimi della protagonista, senza rinunciare all’oggettività descrittiva della telecamera.
Il volume contiene altri tre racconti di più recente produzione della scrittrice, più radicali dal punto di vista politico-ideologico rispetto alla produzione antecedente, ma non per questo meno brillanti.
*Dunn, Christopher: On the Ground in the Global Mix (introduction in First Word Third Class and Other Tales of the Global Mix - University of Texas Press - 2005)